sabato 31 maggio 2014
Perché non lo faccia per la strada? La radio
La radio è stato il mezzo di diffusione più efficace del rock’n’roll. Quando Elvis Presley registrò negli studi della Sun di Memphis la sua versione saltellante di That’s All Right, fu al disk jockey radiofonico Dewey Phillips della stazione radio WHBQ di Memphis che il produttore Sam Phillips mandò una copia del disco. La sera del 7 luglio del 1954 Dewey mise in onda l’acetato scatenando una tale reazione degli ascoltatori che finì per rimettere il pezzo per quattordici volte, dopo di che convocò Elvis alla stazione radio per intervistarlo in diretta. Il nome stesso di rock’n’roll fu coniato dal disc jockey radiofonico Alan Freed, soprannominato Moondog. Essere trasmesso in radio era determinante per entrare in classifica, soprattutto per i dischi delle label locali indipendenti, come la Chess di Chicago o l’Atlantic di New York). Nel 1959 scoppiò lo scandalo del payola, cioè dell’abitudine dei discografici di pagare i disc jockey perché trasmettessero le loro canzoni, una crociata portata avanti dal FBI forse per attaccare le radio che trasmettevano musica nera per il pubblico dei bianchi. Per non incorrere nel sospetto di payola molte case discografiche presero l’abitudine di moltiplicare le proprie etichette: Chess fondò la gemella Checker, Motown la Tamla e Gordy, Stax la Volt e così via.
Lo stesso Leonard Chess fondò negli anni sessanta una stazione radio per il pubblico nero di Chicago, che divenne così popolare che capitò che testimoni di rapine e fatti di cronaca telefonassero prima alla radio che alla polizia.
Una trasmissione di culto degli anni sessanta fu quella di Wolfman Jack, che copriva tutti gli Stati Uniti da Los Angeles a New York City trasmettendo da una piccola stazione dalle parti di Tijuana in Messico dotata di un’antenna così potente che negli States sarebbe stata illegale. Wolfman Jack fu invitato da George Lucas a recitare la parte di sé stesso nel film American Graffiti, che descriveva una notte dell’estate del 1962 dei teenager di una cittadina della California. Nel ‘73 il film diede una nuova popolarità ai vecchi hit di Chuck Berry, Buddy Holly, Del Shannon, Booker T and the MGs e Beach Boys, un lustro prima che il punk li elevasse al ruolo di classici.
Anche in Italia la radio fu determinante per far conoscere la musica rock, sia quella angloamericana che quella degli artisti locali. Negli anni sessanta la prima trasmissione specializzata fu Bandiera Gialla di Arbore e Boncompagni, che trasmettevano tanto canzoni originali in lingua inglese che le cover dei gruppi italiani. Dal ’66 al ’76 la trasmissione più importante fu Per Voi Giovani, di genere più progressivo e d’avanguardia, specie dal momento dell’arrivo di Paolo Giaccio, del cantautore Claudio Rocchi, di Carlo Massarini, Fegiz, Raffaele Cascone, Fiorella Gentile, Michelangelo Romano, Massimo Villa e Riccardo Bertoncelli, mentre Arbore e Boncompagni passavano all’umorismo ed alla satira di Alto Gradimento, che veniva introdotta ogni giorno alle 12:30 dalla sigla di Rock Around The Clock. Per dare un’idea del livello, Per Voi Giovani mise in onda per intero i tre long playing della colonna sonora di Woodstock.
La trasmissione di Arbore era così popolare che appena usciti da scuola accendevamo immediatamente la radio, in verità più che per le scelte musicali per i demenziali sketch dei personaggi inventati da Mario Marenco, come il professor Aristogitone, il figlio di Menuel, Max Vinella, Patroclo, il colonnello Buttiglione, la Sgarrambona, Scarpantibus, Vinicio, il pastore abruzzese.
Quando avevo 14 anni, ogni sera alle 20:10 mi sintonizzavo su Radio 2 per ascoltare Supersonic («dischi a Mach-2») che aperta dalla sigla dell’assolo di In-A-Gadda-Da-Vida degli Iron Butterfly trasmetteva tutti i singoli rock più orecchiabili del momento. Era un momento imperdibile per ascoltare le nuove uscite e tutte quelle canzoni che non potevo permettermi di acquistare con la paghetta settimanale, per cui speravo sempre che passassero la PFM, Alan Sorrenti (Dicitincello Vuje), Bowie ed Elton John. Fuori dal liceo c’era un baretto dotato di un juke-box, che se pure aveva perso gran parte dell’importanza rivestita negli anni sessanta, aveva in programma a fianco dei dischetti di Baglioni e Cocciante (ma quanto portava gramo Quando finisce un amore?) i 45 giri di È Festa (Celebration) della PFM e quelli di Dalla, che allora registrava dischi robusti dalle suggestioni scat come Anidride Solforosa e Automobili.
Ci avrei messo qualche mese a scoprire che era dopo la fine di Supersonic che si aprivano le porte del paradiso. Alle 21:30 iniziava Pop Off, il rock del Mediterraneo. Se Supersonic mandava in onda i 45 giri, Pop Off era un programma di long playing. A rotazione ogni sera della settimana un conduttore diverso presentava i dischi più affini alla sua sensibilità e da subito capivi con quale si sviluppava una speciale empatia, chi era capace di farti vibrare in sintonia. Raffaele Cascone, napoletano, trasmetteva dischi della musica fusion jazz ed etnica di cui Napoli ribolliva, dai Napoli Centrale del sassofonista James Senese (a cui Raffaele stesso aveva dato il nome), alla Nuova Compagnia di Canto Popolare, a Toni Esposito e i Bennato. Fiorella Gentile era la più semplice da seguire ed aveva molti fan perché trasmetteva le ballate dei songwriter californiani. Ricordo che in un’occasione non riconobbe Wild Thing dei Troggs proposta da Michael Pergolani. Michelangelo Romano presentava i cantautori, mentre gli altri disc jockey erano Massimo Villa, Maria Laura Giulietti e Dario Salvatori che era più orientato al jazz e le cui sgargianti giacche colorate alla radio non si potevano ancora intuire.
Il mio preferito fra tutti era Carlo Massarini, «un’ora di sana e solida musica rock», detto Mr.Fantasy per via della passione per i Traffic con cui era stato sul pullman del tour italiano. Il mattino in classe le canzoni ascoltate a Pop Off erano un argomento di discussione, assai più delle lezioni di letteratura da mandare a memoria che erano ben più lontane dal radar dei nostri interessi.
In una di quelle estati da teenager capitò che in cinque compagni di classe passassimo una settimana in roulotte sul lago. Eravamo due amici e tre ragazze. A pensarci oggi credo che la cosa fosse stata organizzata dalla proprietaria della roulotte per dormire con il mio amico, e noi altri costituivamo la copertura. Avevamo portato con noi un mangiacassette con un po’ di musica, ma le attrattive musicali si rivelarono altre. Il juke-box del bar per esempio aveva canzoni come One Of These Days dei Pink Floyd, che era un buon brano da ascoltare in cambio di una moneta, ma soprattutto la radio nel pomeriggio trasmetteva la classifica dei cento dischi preferiti dagli ascoltatori. Era Per Voi Giovani ed il gioco era stato inventato da Raffaele Cascone. Gli ascoltatori dovevano scrivere la propria classifica motivandola, e i pareri più significativi erano letti fra un disco e l’altro. Credo che ogni giorno trasmettessero dieci dischi, a quanto ricordo più o meno subito dopo l’orario in cui lavavo i piatti (non che ci fosse un gran che da mangiare sulla roulotte). Il disco al centesimo posto era di Todd Rundgren. Mano a mano che ci si avvicinava alla Top Ten apparivano i dischi progressive, in particolare quelli dei Genesis, molto popolari in Italia al punto di piazzare nella classifica l’intera discografia.
In Top Ten c’erano Rimmel di De Gregori e Darwin del Banco, CSN&Y, Atom Heart Mother dei Pink Floyd, Nursery Cryme, Yessongs, The Lamb Lies Down On Broadway, In The Court Of The Crimson King.
Quando infine arrivò l’attesissimo numero uno, la trasmissione era già andata per le lunghe e mancavano solo pochi minuti alla chiusura. Fu svelato che il disco era il mitico Ummagumma, titolo che tutti conoscevano ma che pochi avevano ascoltato e meno ancora possedevano, perché era un doppio vinile a prezzo pieno. La leggenda orale voleva che fosse una sorta di straordinaria musica cosmica totale che fondeva la seriosità della musica contemporanea con le improvvisazioni del rock. Fu una delusione il fatto che non fecero in tempo prima della chiusura del programma a trasmettere più di un paio di minuti di rumori, senza arrivare all’attacco del brano, che immagino fosse l’incipit di A Saucerful Of Secrets. Ancora per qualche anno non sarei riuscito ad acquistare quel doppio vinile (che non uscì mai in edizione economica) e chissà che non sia stato anche per vendicarmi che all’esplosione del punk scrissi su un articolo per il Mucchio Selvaggio intitolato Il cimitero degli elefanti: «Ummagumma, dai Pink Floyd pomposamente consegnato alla storia e dalla storia presto rifiutato».
Ma più ancora che dalla classifica di Per Voi Giovani, in quella vacanza noi cinque liceali fummo ipnotizzati da una ignota e lontana stazione radio che si captava confusamente solo al tramonto, una radio dove non parlavano mai ma dove puntualmente ogni sera trasmettevano lo stesso brano. Un suono fantascientifico mai udito né immaginato prima, l’eco lontano di un ritmo elettronico rilassato e vagamente onirico, dove un coro apparentemente robotico ripeteva in continuazione qualche cosa che poi si decifrò essere «wirh far'n far'n far'n auf der autobahn» (andiamo andiamo andiamo per l’autostrada). Una specie di On The Road Again della nascente era digitale. Sulla roulotte non escludevamo di aver captato una radio aliena, il che avrebbe potuto essere un buon incipit per un film di Steven Spielberg.
Successivamente identificato, quel disco non avrebbe mai più suonato con il fascino di quegli ascolti radiofonici disturbati. Si scoprì essere un gruppo tedesco di Düsseldorf dal nome Kraftwerk. Erano gli anni di Tangerine Dream, Klaus Schultze e Faust, ma l’affilata precisione al laser di Ralf Schneider e Florian Hütter sembrava metter in ombra tutti gli altri. Avrei saputo in seguito che Autobahn era il loro quarto disco (il primo stampato in Europa dalla Philips), e che il primo nucleo di quella band aveva dato origine a un altro mitico disco dell’europa continentale, il Neu! che si apriva con la canzone Hallogallo.
Il terzo disco dei Kraftwerk era Ralf & Florian, un jingle jangle di suoni elettronici puri come il cristallo che avevano l’ambizione di fondere il sacro con il profano, la musica pop con la seria musica sperimentale contemporanea. Autobahn ci sarebbe riuscito in modo perfetto, ed ebbe un eco deco e futurista nel successivo Radioactivity, dedicato alle onde radio, suonato come ci si trovasse nell’inizio di novecento di un universo parallelo. Il resto della storia è noto: David Bowie e Brian Eno si innamorarono di quelle vibrazione e ne trassero ispirazione per la trilogia berlinese. Che a sua volta venne citata dai Kraftwerk nel successivo e definitivo Trans Europe Express, il disco che ebbe il pregio di fare dei quattro delle rock star e la colpa di inventare tutto il techno pop che ci avrebbe perseguitati negli anni ottanta. Non a caso i Kraftwerk chiusero praticamente lì la loro parabola, forse appagati di aver creato l’elettro pop.
Fino al 1976 in Italia non esistevano emittenti radio alternative alla RAI. Per una volta non era una singolarità nazionale: il film inglese I Love Radio Rock racconta in modo romanzato una storia ispirata a Radio Caroline, l’emittente “pirata” che per trasmettere sul suolo britannico doveva farlo da una nave fuori dalle acque territoriali, e che anche in questo modo fu presa di mira dalle leggi protezioniste del governo britannico.
Quando le stazioni radio private furono dichiarate legittime dalla Corte Costituzionale, nacquero come funghi dopo una notte di pioggia migliaia di emittenti in ogni città e in ogni paese, con ogni sorta di entusiasti aspiranti disc jockey ai microfoni, come è raccontato in un altro film, Radio Freccia di Ligabue. Significativamente queste radio allora non si chiamavano ancora private ma Radio Libere e questo nome sottolinea bene la portata di quella che era vissuta come una rivoluzione, specialmente dagli amanti della musica rock (che poi allora erano tutti quanti i giovani). Eugenio Finardi dedicò alle radio libere una canzone dal sapore country: «amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente, e se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace ancor di più perché libera la mente…»
Posso dire: io c’ero. Nel 1976 avevo 18 anni e già una certa collezione di dischi d’importazione raccolti in diversi viaggi in Inghilterra. Un curriculum perfetto per condurre un programma dai microfoni di una radio libera. Lo studio più bello da cui avrei trasmesso era posto nell’attico di un hotel (oggi un posto equivoco, ma allora non saprei, non ci facevo neppure caso) ai bordi della città. L’apparecchiatura era circondata da larghe vetrate da cui si vedevano le strade e le auto che le percorrevano, e l’impressione parlando nel microfono era quella di rivolgersi direttamente a quelle persone. La mia prima sigla fu Hallogallo dei citati Neu! per una trasmissione intitolata proprio Hallogallo. Era molto adatta al suo scopo, come adatte furono Dizzy Lizzy dei Can e le soffici percussioni di Pierre Moerlen in Expresso dei Gong. Qualche anno più tardi, in epoca di Mucchio Selvaggio, le mie sigle divennero In Shades di Tom Waits e Green Onions dei Booker T & MGs.
Mediamente tutti gli altri studi da cui mi trovai a trasmettere erano scantinati, e quella esaltante sensazione degli esordi non la provai più. Erano radio di provincia, e vivendo alla periferia dell’impero non ebbi mai l’opportunità di condurre un programma radio vero e serio, tipo Rai Stereonotte. Un po’ alla volta le radio libere di trasformarono in radio private e la cosa smise di essere divertente: c’era la stessa incolmabile differenza che separava la musica rock da quella leggera.
tratto da Perché non lo facciamo per la strada? di Blue Bottazzi
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